la seconda Opera lirica scritta da Ella von Schultz Adaïewsky e mai rappresentata
La riconsiderazione dell’invenzione musicale femminile, nel nostro Occidente non ancora estinto, è ormai un dato consolidato: si sta solo ora facendo ammenda di secoli in cui ottusità e pregiudizio di genere dimezzarono la creatività del genere umano, tarpando e limitando gli ingegni muliebri. Tra le figure riemergenti spicca quella di Ella von Schultz Adaïewsky, pianista, compositrice e musicologa nata a San Pietroburgo nel 1846, vissuta per quasi trent’anni a Venezia e scomparsa a Bonn nel 1926.
La sua produzione cadde in un progressivo oblio dal quale sta uscendo grazie a un lungo lavoro di ricerca condotto, a partire dal 2004, dall’Associazione Sergio Gaggia di Cividale del Friuli. Alcune sue composizioni trovate nello studio del compianto Piero Pezzè o in biblioteche venete e friulane, e alcuni scritti editi nella RMI (Rivista Musicale Italiana) impressionarono subito positivamente gli operatori e portarono, contestualmente all’esecuzione di brani pianistici, cameristici e liederistici, all’organizzazione di tre convegni tra il 2006 e il 2008, nei quali, molti autorevoli nomi certificarono il valore incondizionato di questo lascito.
Successivamente, il ritrovamento nel 2009 di un manoscritto adaïewskyano - Un vojage a Résia - ha letteralmente scompaginato la storia dell’etnomusicologia. Con le parole di Febo Guizzi, già ordinario di questa disciplina all’Università di Torino, questo scritto – pubblicato successivamente dalla LIM (Libreria Musicale Italiana) - si pone quale «atto fondativo dell’Etnomusicologia in generale, capace di anticipare di decenni metodi e atteggiamenti euristici di straordinaria preveggenza e perciò di sconvolgere le nostre abitudini circa le origini di questa disciplina».
La figura di Ella stava rapidamente riconquistando il rilievo che le spettava, in una sorta di risarcimento postumo. Anche la sua musica riprese a essere eseguita in molte prestigiose sedi, dall’Ermitage a Stoccarda, da Firenze a Graz, da Burgos a Cracovia, con l’uscita di CD dedicati; di lei si occuparono, tra i tanti, Il Sole 24 ore, Amadeus, Musica, Radio3 Suite.
Restava però una lacuna da colmare. Negli anni ’70 dell’Ottocento, a San Pietroburgo, Ella si era dedicata al teatro musicale, componendo due opere liriche: Neprigoshaja, la figlia del Boiaro, opera comica in un atto unico (1873) e Zarja, l’aurora della libertà, opera popolare (Volksoper) in quattro atti (1877). Nessuna delle due creazioni giunse a una rappresentazione in forma scenica.
Finalmente il manoscritto di questa seconda opera, la più cospicua e impegnata, è stato ritrovato, dopo una lunga ricerca, in una biblioteca tedesca: un’ampia partitura di oltre cinquecento pagine per un organico orchestrale e vocale completo, tipico dell’epoca. A una prima occhiata la scrittura si presenta curata nei dettagli e rivela una notevole consapevolezza contrappuntistica entro una gestione armonica avanzata e sontuosa. Anche la gestione formale e drammaturgica, basata su paradigmi prewagneriani, è condotta con sicurezza, concedendo al gusto francese il vezzo del ballo introduttivo. Il libretto è opera di Richard Genée, già autore di testi per Franz von Suppè e Johann Strauss II, tra cui il celebre Pipistrello. La vicenda è ambientata nella Piccola Russia del Settecento, ai tempi della servitù della gleba ed è imperniata sulla conflittualità sociale dell’epoca.
I motivi che non permisero la messa in scena di Zarja non sono certo da ascriversi a imperizia. Da un lato una trama drammatica, allusivamente antiaristocratica e apertamente filocontadina, portò a mancate autorizzazioni e a boicottaggi, anche nei casi in cui l’allestimento era giunto in fase avanzata, e non solo a San Pietroburgo, ma anche a Vienna, Parigi e Budapest! E questo nonostante la servitù della gleba fosse stata abolita nel 1861 da Alessandro II, cui è dedicata l’opera. Dall’altro lato – aspetto probabilmente predominante – il pregiudizio di genere nei confronti di una “compositrice”, termine che non era contemplato al femminile nei dizionari dell’epoca, oltre ad aver spinto Ella allo pseudonimo maschile Adaïewsky, continuò per tutta la sua esistenza a condizionarne drasticamente gli esiti di pubblico e critica.
L’anno in corso sarà dedicato allo studio e all’analisi della partitura da parte di un team creato dalla “Gaggia”, con il progetto di realizzare nel 2025 un’esecuzione parziale di Zarja sotto forma di concerto: un piccolo risarcimento per un’abietta censura e per un ingiustificato abbandono, una tardiva restituzione intrapresa in quella terra friulana dove Ella, sul finire dell’800, condusse le ricerche che la collocano ora tra le figure fondatrici dei metodi d’indagine applicati alle culture musicali folkloriche.
Umberto Berti